Foza ed emigrazione (Luigi Menegatti)
di Luigi Menegatti
Nell’antico comune di Foza - Wusche nella lingua cimbra – vigeva l’istituto della proprietà collettiva dell’intero territorio, concesso nell’ottobre del 1448 dai monaci Benedittini di Campese a favore dei capifamiglia del paese.
Le attività economiche prevalenti per secoli furono la pastorizia – la pecora Foza era nota in tutto il Veneto – e lo sfruttamento dei boschi, legname e carbone, una popolazione quindi di pastori e boscaioli.
La proprietà del territorio sotto la formula delle "comunanze" consentì quindi un’economia primitiva, in buona parte basata sul baratto e in qualche misura di tipo collettivistico in un’epoca nella quale il superfluo era del tutto sconosciuto.
La città di Vicenza aveva ripetutamente rivendicato la proprietà dei beni dei Sette Comuni.
L’Abate Agostino Dal Pozzo, storico dell’Altopiano, contribuiva a fornire ai Comuni le informazioni per contrastare le mire di Vicenza.
Da alcune sue lettere inviate nel 1779 ai rappresentanti dei Sette Comuni in missione presso la Repubblica di Venezia, apprendiamo che in quella città aveva aperto una locanda nel quartiere di S. Silvestro, Lazzaro Lazzari di Foza.
Tale locanda divenne il luogo d’incontro dei carbonai del paese che scendevano a vendere il loro prodotto a Venezia.
Ancora nell’anno 1598 il Conte Caldogno, per conto della Repubblica di Venezia, scriveva nella sua relazione:
"…..Foza ha circa 1.200 anime e attorno ai fuochi circa 250 famiglie.
Il paese è dotato dalla natura d’uomini di più famosa statura e fortezza degli altri ……..
I loro terreni, posti in erte e rovinose rive, sono rovinati dalle acque che scendono dalla sommità dei monti e rendono solo un po’ segale ed avena e gli uomini si danno all’arte pastorale e vivono dei loro sudori tagliando legnami…………."
Una parte consistente delle famiglie quindi praticava la transumanza, portandosi per 6/7 mesi all’anno, nella pianura veneto-friulana, e lungo gli argini a pascolare le pecore fino alle foci dei fiumi.
Innumerevoli sono, infatti, gli atti trascritti nei libri dei nati e dei morti, delle parrocchie delle diocesi venete, lasciando scia e traccia di perinegrazioni secolari e testimonianze di vita nomade.
Verso l’unità d’Italia (1860), venuto meno l’Istituto del Pensionatico - garantito dalla Repubblica Veneta, che aveva per molto tempo, regolato e favorito il diritto di pascolo per i pastori dei Sette Comuni – la pressione demografica, unita alla sterilità dei terreni e al clima inclemente della montagna, innescarono un processo di progressivo impoverimento destinato nel tempo a spopolare il paese.
Nel finire del XXVIII secolo le contrade erano stracolme di persone, le case ricoperte di paglia erano insufficienti ad accogliere tutti e, in effetti, il paese raggiungeva allora le 2.100 unità.
Fu l’iniziò dell’emigrazione stagionale verso il Tirolo, la Prussia e gli Stati dell’Impero Austro-Ungarico, mentre alcuni pastori preferirono stabilirsi nella campagna veneta.
Fu un inserimento lento e progressivo da parte di pastori che avevano acquistato piccole tenute e povere case per trovarvi ricovero durante l’inverno passato nelle poste. Poi ingrandirono le proprietà e qualcuno incominciò a fermarsi in pianura stabilmente, e col tempo popolarono interi paesi.
Oggi a Villabartolomea di Verona predominano i Cappellari, a Villa del Conte – Padova molti sono i Marcolongo, mentre i Carpanedo si sono inseriti in Friuli.
Dopo la caduta di Venezia e l’annessione del Veneto all’Italia le terre del Montello – Treviso, un tempo gestite dall’Arsenale della Serenissima, per il prelievo dei legnami da lavoro, furono cedute ad un prezzo molto basso perché ormai nude di vegetazione e ricche soltanto di serpenti.
Alcune famiglie del paese vi si trasferirono nella convinzione di poter comunque migliorare la propria esistenza.
Importarono pianticelle di robinia dall’America e incominciarono a ripopolare le colline deserte e spoglie.
Si portarono dalla montagna come parroco, Don Marco che parlava la loro stessa lingua, il cimbro.
Rocco un trovatello adottato dalla famiglia Guzzo di Foza, un po’ prima che si trasferisse nel Montello ripagò l’ospitalità del paese scolpendo per la chiesa di S.S. Angeli, il grande Cristo di legno che troneggia sull’altare e le statue dei Santi alcune terminate quando lui aveva superato gli 85 anni di età.
Un altro numero discreto di famiglie s’insediò stabilmente a Salach, nei pressi di Stoccarda, trovando lavoro stabile ed accoglienza amichevole per via anche della lingua cimbra da loro parlata che era simile ad un dialetto tedesco.
A Salach, nacquero i figli degli emigrati, alcuni vi frequentarono le scuole.
All’inizio del ‘900 altri giovani invece si trasferirono nella regione della Saar, ricca di miniere e alcuni di loro presero moglie sposando ragazze tedesche.
Purtroppo, allo scoppio della 1a guerra mondiale tutti dovettero rimpatriare. Gli uomini furono occupati come operai militari nella costruzione di strade e del forte Lisser sulla montagna di Enego, prima di essere arruolati nell’esercito italiano.
Nel 1916, il 17 maggio, tutto il paese fu sgomberato e l’intera popolazione fu mandata profuga.
Chi poté trovò ospitalità presso parenti, ex pastori residenti in pianura.
Gli altri furono trasferiti in tradotta in Campania, Puglia e altri ai piedi dell’Etna in Sicilia.
La sede del comune fu portata provvisoriamente a Cittadella.
In paese c’è chi ricorda ancora - come Maria Carpanedo, quasi centenaria - le spose tedesche e i loro bimbi biondi spaesati ed impauriti nelle contrade in subbuglio prima della fuga.
Uno di questi bimbi Franz ritornò in Germania, a Dillingen, con i suoi genitori, finito il conflitto. Al tempo della II guerra mondiale, spesso passò per il paese con la divisa della Werhmacht accompagnando, da interprete i commilitoni tedeschi di stanza in Italia.
Un altro bimbo del paese Pietro Lazzari classe 1900, fece in tempo a partecipare alle ultime azioni della I guerra mondiale, rimanendo sotto le armi fino al 1922.
Poi divenne prete e monsignore e da Berlino fu incaricato di seguire, come ispettore dei cappellani dei lavoratori, gli emigranti italiani impiegati nello stato tedesco ai tempi di Hitler.
Da Foza furono ingaggiati anche capi squadra ed interpreti, perché conoscevano bene il tedesco, come Pietro Ceschi, che partì con la figlia e con Giuseppina Oro, per lavorare nei campi.
I lavoratori normalmente tornavano a fine stagione ma non poterono tornare invece otto donne del paese sorprese nelle fattorie della Germania al momento dell’armistizio dell’8 settembre 1943.
In mezzo a mille traversie si salvarono miracolosamente dai bombardamenti e, alla fine della guerra, evitando le strade, fuggirono, dalla parte sbagliata.
Arrivarono in Polonia a piedi e furono internate in un campo di concentramento gestito dai russi. Subirono anche violenze e di una non si seppe più nulla.
Ritornando agli anni di fine ‘800, alcune famiglie spinte dalla miseria, si imbarcarono a Genova e partirono per il Brasile ed il Nord America.
Oggi, nelle zone di S. Paolo - dove da quasi 50 anni presta la sua opera il nostro missionario Padre Orazio Cappellari e di Rio Grande do Sul, sono presenti pressoché tutti i nostri cognomi.
Un giornale del Brasile tempo fa riportò la notizia che a Serafina Correa, Louis Gheller, sindaco del paese, decretò che si parlasse la lingua veneta per una settimana intera.
Parimenti le miniere di Wonteggi in Australia videro la presenza di un nutrito gruppo di giovani minatori partiti dalle nostre contrade.
Molti vi rimasero per sempre, altri ritornarono per la nostalgia di casa, e c’è chi come Giomaria Gheller tornò, nel 1927 con la schiena spezzata e morì dopo pochi mesi dal rientro in paese o Urbano Cappellari che, tornato anche lui ammalato, trascinò la sua vita costretto su di una carrozzella, non mancando mai di donare un sorriso a tutti quelli che lo avvicinavano e, un aiuto agli emigranti che gli chiedevano in prestito i soldi per poter partire.
Oggi in Nuova Zelanda e in Australia, a Melbourne e nei dintorni, vivono alcune centinaia di emigrati dal nostro paese.
A molti giovani appena arrivati fece da mamma Linda Omizzolo, ospitandoli nei primi momenti di difficoltà di ambientamento e di ricerca del lavoro.
Sopra le scale del Veneto Club di Melbourne, scolpiti nel marmo, tra i soci fondatori spiccano i nomi di alcuni dei nostri emigranti.
In un’altra parte del mondo, a Bessemer, nello stato del Michigan, arrivarono altri giovani per entrare nelle viscere della terra e scavare nelle miniere.
Ancor oggi vi abitano i nipoti dei primi pionieri partiti tanti anni fa e le croci del cimitero sono lì a ricordare.
A fine ‘800 se n’era andata anche la Marietta Gheller, verso lo stato di Indipendence Massouri; da lì inviava senza soste pacchi pieni di vestiti e scarpe di ogni foggia e misura.
La sorella Orsola li riceveva in paese e li distribuiva tra tutti i parenti poveri delle contrade.
La figlia della Marietta vive ancora, ormai centenaria e, anche se nata in America non ha dimenticato la lingua della mamma. Negli anni ’50 Marietta aveva pregato il nipote "marine" di stanza nella caserma americana di Vicenza, di trovare il tempo per portarsi a Foza a manifestare il carico di nostalgia della nonna.
Nel periodo della grande depressione economica del 1929, decine di uomini, ragazzi e famiglie si portarono in Francia inaugurando una via nuova all’emigrazione in precedenza rivolta verso i paesi di lingua tedesca.
Alcuni si stabilirono nel nord della Francia, nelle Ardennes dove c’erano le miniere, altri nel Sud a fare gli agricoltori e nelle cave di sasso della Costa Azzurra, altri ancora nella Savoia a tagliare boschi, a Parigi nella costruzione della metropolitana.
Le nostre ragazze, anche di soli dodici anni, furono richieste dalle fabbriche di Venaria Reale, Torino e Pavia, dalla Snia Viscosa alla Venchi Unica. Altre ancora facevano le balie nelle città nelle case dei ricchi.
Tony Petarutz, comandava una squadra di operai ingaggiati a costruire la strada Milano-Monza, con l’impresa Puricelli, dopo aver fatto l’emigrante in Germania, ancor prima di fare il soldato sul fronte della I guerra mondiale.
A Sondrio rimase invece ucciso il primo giorno di lavoro Ernesto Menegatti, colpito al capo da un sasso lanciato dallo scoppio di una mina.
Nel 1938 alcune famiglie numerose andarono in Cirenaica - villaggio Oberdan, di Derna - a dissodare le terre dell’impero, per poi doverle lasciare dopo pochi anni agli arabi, quando la guerra di Mussolini volgeva al peggio.
Anche tra i coloni in Libia ci fu chi non tornò più a casa, come Raimondo Marcolongo classe 1913, vittima di un attentato.
Rimpatriati dall’Africa con il riconoscimento dello status di profughi e favorite dagli accordi internazionali, alcune famiglie partirono per il Canada e per Seattle negli Usa.
Nell’epoca fascista era anche iniziata la bonifica dell’Agro Pontino e tra gli altri partì per rimanervi stabilmente la famiglia Omizzolo, che tanta parte ha avuto nello sviluppo di quell’area.
Nell’immediato dopoguerra il Belgio stipulò un accordo con l’Italia, contrattando forniture di carbone in cambio di mano d’opera per le miniere di Charleroi e Marcinelle.
I nostri uomini contrassero in buona parte la silicosi e molti morirono per tali conseguenze.
Alcune giovani spose, rimaste senza il sostentamento del marito, furono costrette a mendicare un po’ di farina e di patate, dalla carità del paese per sfamare i piccoli orfani.
Negli anni ‘50 si aprirono le frontiere della Svizzera che accolse la gran parte dei nostri giovani e uomini nelle più disperate attività ma soprattutto nei cantieri edili e nella costruzione di gallerie.
Molte ragazze invece impiegate nelle fabbrica di S. Gallo erano ospitate presso le suore.
Ci furono anche diversi incidenti mortali, in uno morì nel 1958 Vigilio Gheller colpito in pieno da una mina.
Lasciò quattro bimbi in tenera età e la giovane moglie.
Poi fu la partenza incontrollata verso Busto Arsizio, Varallo Sesia, Torino, Milano, Genova e, negli anni’60 verso Bassano e dintorni.
Ora in paese non ci sono più di ottocento persone e, dice il sindaco, Carlo Lunardi si sta assistendo ad un fenomeno nuovo di pendolarismo, non scevro di pericolo di spopolamento.
Ogni mattina oltre sessanta auto scendono la tortuosa strada verso la pianura e si portano per lavoro nella Val Brenta fino a Bassano.
Per alcuni anni i pendolari torneranno ogni sera poi, le difficoltà di spostamento costringeranno molti di loro a cercare un’abitazione in pianura.
Così emigreranno dal paese, ancora una volta le persone più giovani.